Definire con precisione che cos’è il colloquio psicologico non è sicuramente un compito facile: sono state espresse molte definizioni e fornite diverse spiegazioni, tuttavia, nonostante i punti in comune, il compito rimane complesso. Per quanto mi riguarda, mi piacerebbe rifarmi ad un’affermazione di Bugental (1954) per descrivere ciò che il colloquio psicologico assolutamente NON è:

Il colloquio è un processo di comunicazione che si svolge tra due persone, una delle quali, a causa della sua posizione, lo utilizza in maniera determinata allo scopo di giudicare o influenzare l’altro.” 

Ora, se questo è vero per alcuni tipi di colloquio, si discosta nella maniera più assoluta dalla realtà del colloquio psicologico. Quest’ultimo, infatti, in ognuna delle sue numerose applicazioni, risulta essere una relazione inevitabilmente reciproca, un processo caratterizzato da stile partecipativo in cui entrambe le parti, pur nella conservata distinzione dei ruoli, vengono coinvolte attivamente in modo da consentire la massima interdipendenza e nel quale ogni posizione giudicante, ogni tentativo di imporre le proprie idee in maniera più o meno coercitiva è assolutamente fuori luogo ed assai controproducente. A volte il professionista è l’unica persona nella vita del paziente che lo ascolta senza giudicare, senza distorcere e senza secondi fini ed è spesso l’unico che ne rinforza il processo di crescita personale e ne stimola i cambiamenti verso una più completa autonomia. Il cliente deve uscire da questa esperienza con una maggiore consapevolezza di sé e del proprio comportamento ed è proprio partendo da queste nuove conoscenze che può diventare artefice del proprio cambiamento.                                                                                                                                                                                                          

Egli non deve essere considerato alla stregua di un bambino capriccioso o incapace di prendersi cura di se stesso, bensì come una persona responsabile del proprio comportamento e, fino ad un certo punto, anche della situazione in cui si trova, una persona che in ogni caso ha racchiuse in sé, anche se spesso ancora non lo sa, quelle capacità necessarie a migliorarne la vita. All’operatore spetta dunque il compito di portare alla luce queste capacità, renderle manifeste al cliente in modo che possa appropriarsene e aiutarlo a servirsene nel migliore dei modi. Tutto questo va fatto evitando di condurre la relazione e ,quindi ,il colloquio di cui essa è imperniata, in modo rigido e autocratico, ma prestando costante attenzione ai pensieri del paziente, alla sua attività di autocomprensione e ricerca, incoraggiandone le riflessioni e tendo ben presente che chi ci sta di fronte, pur presentando problemi comuni ad altri, è unico nella sua globalità ed unico sarà il rapporto che si instaurerà con lui, un’irripetibile occasione di crescita personale e maturazione professionale anche per il più esperto dei professionisti.          

Ma chi è il paziente, o cliente che dir si voglia? Chi è colui che entra nello studio di uno psicologo, di uno psichiatra, di uno psicoterapeuta? Indubbiamente si tratta di una persona afflitta da un qualche tipo di problema che si ripercuote sul normale svolgimento della sua vita causando sofferenza e disagio. A volte i problemi sono più di uno e così strettamente interconnessi da formare un groviglio all’apparenza inestricabile, un intrico di rovi nel quale lo sfortunato individuo si dibatte senza trovare via d’uscita e spesso senza sapere neppure come ci è finito: se rimane immobile non procede lungo il cammino della propria vita, ma se si agita le spine lacerano le carni e il dolore aumenta. Da sole queste persone si sentono perse e sono alla ricerca di qualcuno che indichi loro la strada da seguire. Certo non è sempre così. Vi sono casi in cui il cliente non considera neppure l’eventualità di avere un problema o comunque di aver bisogno di aiuto. A questo proposito vorrei fare una prima fondamentale distinzione tra clienti volontari ed involontari. I primi sono coloro che si presentano spontaneamente dall’operatore mossi dai più svariati problemi e dalle sofferenze da essi generate: sono persone sfiduciate, ansiose, spesso impossibilitate a trovare sostegno tra famigliari e amici, spesso spinti proprio dalle loro famiglie. Sono persone intrinsecamente motivate, cioè spinte da una convinzione interiore e da una maggiore o minore consapevolezza di poter ricavare qualcosa di positivo dall’incontro con un professionista. Al contrario, i clienti involontari sono coloro che si rivolgono ad un determinato servizio perché costretti da altri (ad esempio tribunali, ospedali, datori di lavoro, famigliari…) e il rifiutare avrebbe per loro conseguenze estremamente negative. E’ il caso per esempio di una famiglia a cui venga richiesto da parte del tribunale di sottoporsi a terapia sotto la minaccia di allontanamento del figlio o di un tossicodipendente che non ha altre alternative se non la prigione. In ogni caso si tratta di persone estrinsecamente motivate, le quali rifiuteranno l’aiuto offerto almeno finche non scopriranno di non avere altra scelta e che comunque attueranno diversi stratagemmi per sfuggire alle domande e per evitare di impegnarsi attivamente nella terapia. In questi casi il primo compito del terapeuta è affrontare le resistenze del cliente e comprendere l’ansia che lo accompagna. Infatti l’ansia è un vissuto quasi sempre presente in queste situazioni e può avere conseguenze sia positive che negative: un’ansia eccessiva può avere un effetto paralizzante impedendo alla persona di sfruttare al meglio le sue capacità, mentre un basso livello d’ansia non fornisce uno stimolo sufficiente al cambiamento. Il delicato lavoro dell’operatore consiste nel raggiungere un compromesso tra l’esigenza terapeutica di diminuire l’ansia e la necessità di non estinguerla in modo che non venga a mancare la motivazione a continuare la terapia. Nel caso di clienti involontari e scarsamente motivati è sicuramente utile sottolineare le immediate conseguenze negative che avrebbe il rifiuto e solo in seguito, progressivamente, si porterà il soggetto ad analizzare più approfonditamente il suo comportamento all’interno della relazione d’aiuto. Occorre tuttavia precisare che anche tra le motivazioni dei clienti volontari sono spesso presenti fattori estrinseci, siano essi pressioni da parte di amici e famigliari, minacce più o meno esplicite da parte del coniuge o qualsiasi altro elemento di influenza esterna. Bisogna considerare bene in che misura sono presenti i diversi fattori motivanti per comprendere da subito ciò che sta più a cuore al paziente e trovare il miglior punto di aggancio con il medesimo. Può capitare che il paziente si presenti con una percezione errata sull’origine del suo problema e non di rado gli stessi componenti della sua famiglia non fanno altro che rafforzare tale percezione: in realtà l’origine del problema può dipendere da tutt’altra causa oppure ne possono coesistere altre di cui il cliente non è neppure a conoscenza. E’ tuttavia molto importante rivolgersi inizialmente al problema così come ci viene presentato poiché le percezioni attuali del paziente sono da lui vissute come reali. Tentare immediatamente di distoglierlo dalle sue convinzioni, anche se sbagliate, non farà altro che minare le fondamenta del rapporto, pregiudicando a volte irrimediabilmente l’instaurarsi di quel rapporto di fiducia tra paziente e operatore che sta alla base di qualsiasi processo terapeutico. Vi sono poi persone che durante il colloquio premono ansiosamente per una rapida soluzione del problema, appellandosi ai poteri terapeutici dell’operatore, a presunte facoltà taumaturgiche e profetiche che vanno ben al di là delle reali capacità del professionista, inteso quasi come un veggente (aspetto oracolare del discorso). In questi casi è bene evidenziare da subito il proprio ruolo reale e differenziarlo dalle fantasie elaborate dai pazienti: questo eviterà in futuro pericolose disillusioni e contribuirà a sviluppare il sentimento di fiducia. Infine non bisogna dimenticare che l’individuo bisognoso d’aiuto è prima di tutto un essere umano come gli altri, con una sua storia personale ben precisa, fatta di determinate esperienze, di eventi lieti, dolorosi, traumatici, curiosi, con una particolare famiglia ed un particolare modo di relazionarsi ad essa, un entità inserita in un determinato contesto socioculturale dal quale sicuramente subirà le influenze. Tutti questi fattori si amalgamano e si sovrappongono come le tessere di un grande mosaico per formare l’uomo che in questo momento ci sta chiedendo aiuto. Il buon operatore non può prescindere da questi elementi ma deve considerarli molto attentamente, cercando di capire le dinamiche attraverso le quali si manifestano nella personalità e nel comportamento del paziente contribuendo a mantenerne l’equilibrio o, come spesso accade, lo squilibrio psicologico.  

All’interno di una relazione di aiuto una delle sedute più problematiche (se non la più problematica) per il buon proseguimento del rapporto è proprio la prima. Infatti il modello d’interazione che si stabilisce nel corso del primo colloquio determina ampiamente il comportamento degli incontri successivi, sia del cliente che dell’operatore.

Occorre cercare di mettere a proprio agio il cliente, fare in modo che comprenda di essere ritenuto una persona degna di rispetto e capace di cambiamenti e di poter trovare nella figura dell’operatore un aiuto sincero e soprattutto concreto.

Egan, all’inizio degli anni ’80, progetta un modello per la gestione dei problemi suddiviso in tre fasi: la prima è l’individuazione del problema per la quale è necessario avere un quadro completo delle singole esperienze e necessità viste non solo dal punto di vista dell’operatore, ma anche e soprattutto dal punto di vista del paziente. Come ho già detto, è molto importante all’inizio non forzare il paziente verso un’interpretazione alternativa, ma lasciare che egli racconti la propria storia come meglio crede.

La seconda fase consiste nell’identificazione degli obiettivi, possibile solo dopo aver ottenuto una chiara visione dei problemi del paziente, dei suoi punti deboli e delle risorse disponibili. Durante la terza fase infine il terapeuta si impegnerà a facilitare l’azione del cliente, aiutandolo ad individuare le strategie migliori, le più adatte alla sua situazione e fornendo un costante supporto per la loro realizzazione pratica.

Ognuna di queste fasi possiede caratteristiche e richiede abilità del tutto peculiari.

Tornando alla prima fase, per poter definire con chiarezza un problema il terapeuta avrà sicuramente bisogno di numerose informazioni, probabilmente molte più di quelle che il paziente gli fornirà spontaneamente all’inizio del rapporto. Possono essere richieste informazioni riguardanti la composizione della famiglia d’origine e il suo clima affettivo, informazioni sull’infanzia del soggetto, sulle sue esperienze lavorative, sulle relazioni sociali e sentimentali, sull’utilizzo del tempo libero, sullo stato di salute e molto altro ancora. C’è chi predilige far compilare al cliente un questionario scritto prima del colloquio e chi invece lascia che i dati biografici e le altre informazioni emergano spontaneamente nel corso del dialogo. Si può partire dal problema attuale dell’utente lasciandogli una notevole libertà di esposizione per risalire poi ad eventi precedenti e ramificare via via il panorama delle conoscenze; nel caso la divagazione si estenda troppo si potrà, senza urtare il soggetto, riportarlo su un tema più specifico.

In ogni caso, il terapeuta accorto rivolgerà la sua attenzione non solo a ciò che il suo cliente gli dirà, alla sua comunicazione verbale, ma anche a “come” glielo dirà, e cioè a tutta una serie di elementi che insieme possono fornire una mole sorprendente di informazioni e che costituiscono la così detta comunicazione non verbale, sempre presente all’interno di un dialogo. Questo tipo di comunicazione comprende elementi non verbali del parlato come l’intonazione di parole e frasi, la qualità della voce, le pause, il volume e la velocità dell’eloquio come indici di sentimenti sottostanti come ansia, collera, eccitazione, ecc. .Altri elementi, detti cinesici, consistono nella mimica facciale, nelle espressioni del volto, nella comparsa di tic o smorfie particolari, ma anche nella postura, nei gesti, nell’orientamento spaziale, nella maggiore o minore vicinanza fisica rispetto all’operatore.

D’altra parte le qualità espressive del volto nel regolare i rapporti interpersonali hanno un’importanza universalmente riconosciuta. Lo sguardo è parte integrante del processo di comunicazione ed è altamente espressivo.

E’ dunque possibile ottenere informazioni dal cliente ancora prima che egli dica una parola, osservando ad esempio dove preferisce sedersi (è preferibile che vi siano più alternative), o il suo abbigliamento, l’apparente stato di salute che traspare dal suo volto, i segnali di tensione, ecc. Si può facilmente risalire all’immagine che il cliente ha di se stesso, analizzando accuratamente tutti questi aspetti.

Nel corso del primo colloquio le cose si fanno più complesse quando il cliente nega l’esistenza di un problema, ne mette in dubbio la gravità o la possibilità di porvi rimedio, o ne attribuisce la responsabilità ad altri.

Prochaska e DiClemente hanno elaborato un modello di come si verifichi il cambiamento all’interno di una relazione d’aiuto; la così detta “ruota del cambiamento” è suddivisa in più stadi: inazitutto lo stadio della contemplazione (o addirittura della precontemplazione). In questo stadio, che costituisce l’ingresso al processo di cambiamento, i clienti hanno in genere una scarsa consapevolezza del loro problema e sperimentano una forte ambivalenza: il contemplatore da un lato prende in considerazione l’opportunità di cambiare e dall’altro la rifiuta. Se lo si lascia parlare del suo problema è probabile che altaleni tra le ragioni che destano le sue preoccupazioni e le giustificazioni di una sua indifferenza. In questo stadio, paragonabile alla prima fase di Egan, emerge il problema della motivazione intesa come la probabilità che una persona cominci, continui e aderisca ad una specifica strategia di cambiamento. La motivazione è un requisito indispensabile per un cambiamento duraturo. Di fatto esiste una particolare branca del colloquio psicologico, detta appunto colloquio di motivazione, particolarmente utile nel caso di pazienti con problemi di alcol e altre dipendenze, che si prefigge di stimolare ed accrescere nel cliente questo sentimento. Per far questo vi sono diversi approcci: sicuramente è utile dare consigli, anche se in maniera non direttiva; un consiglio dato al momento opportuno può essere molto efficace. Occorre, poi, identificare le barriere che ostacolano gli sforzi diretti al cambiamento e assistere il cliente nel tentativo di risolvere opportunamente questi problemi pratici: è bene assicurare diverse opzioni per far si che la persona non senta minacciata o limitata la propria libertà personale. La motivazione intrinseca aumenta quando si ha la percezione di aver scelto liberamente una determinata direzione da seguire senza che sia stata esercitata un’influenza esterna o una coercizione. E’ necessario diminuire la desiderabilità del comportamento disfunzionale evidenziandone gli aspetti positivi (che fungono da rinforzo) e contrapponendoli a quelli negativi fornendo un costante feedback, sulla situazione attuale: ad esempio un bevitore potrebbe risultare fortemente impressionato dai risultati di un check up medico e decidere così che è giunto il momento di fare qualcosa. In ogni caso è fondamentale che l’operatore sia attivamente e positivamente interessato al processo di cambiamento del cliente e che quest’ultimo percepisca questo interessamento come sincero e reale. Esistono prove che testimoniano come a volte una sola seduta, o poche altre, sia sufficiente a “sbloccare” una persona dalla sua staticità contemplativa.

Dunque, se l’operatore gioca bene le sue carte, l’ambivalenza del cliente diminuirà ed egli si verrà a trovare nello stadio della determinazione. A questo punto è estremamente importante rinforzare il sentimento di autoefficacia del soggetto, affinché non sia vittima di paure che potrebbero riportarlo in fase contemplativa. La determinazione generalmente non dura molto tempo, è come una “finestra” che resta aperta per un certo periodo e bisogna essere pronti a sfruttarla prima che si richiuda.

L’operatore deve aiutare l’utente a scegliere la strada migliore da intraprendere e può essere utile a tal proposito creare una scala di comportamenti modificabili partendo da quelli meno impegnativi e di più facile soluzione o da quelli più urgenti per il paziente, spingendosi gradualmente verso il cuore del problema: spesso la consapevolezza dei primi successi può rinforzare notevolmente la determinazione del cliente. Siamo nella seconda fase di Egan, quella di definizione degli obiettivi. Una volta posti tali obiettivi si entra nello stadio dell’azione vera e propria, durante la quale il sostegno e l’aiuto del terapeuta devono essere più che mai presenti con consigli e suggerimenti o semplicemente per verificare insieme all’utente i progressi fatti.

Durante la fase di mantenimento dell’azione sarà poi indispensabile insegnare al cliente ad identificare ed utilizzare le strategie che impediscono un’eventuale ricaduta (ciò è particolarmente valido nei casi di dipendenze da sostanze o in patologie quali la bulimia nervosa e l’obesità), ricaduta che di per sé costituisce un ulteriore stadio della ruota. Dopo una ricaduta il soggetto facilmente si ritroverà di nuovo in uno stadio di contemplazione ed il ciclo riavrà inizio.

All’interno del primo colloquio e nel corso di tutto il processo di aiuto è necessario che il professionista aiuti l'altra persona a capire ciò che sta provando e a non averne paura.

Lo stesso vale per i sentimenti che ci impauriscono al punto da sentircene sopraffatti : definirli con precisione, descriverne gli effetti, l’intensità, collegarli a situazioni specifiche è il primo passo che il cliente può e deve compiere per arrivare infine a controllarli. Accade spesso che il cliente tenti di nascondere i suoi sentimenti o di reprimere le emozioni. Ciò è profondamente sbagliato. Il cliente deve convincersi che la relazione terapeutica è un “ambiente protetto” dove non occorre assumere un’immagine diversa dalla propria. Maschere e copioni non servono, sono forse essi stessi una causa del disagio e pertanto occorre lasciarli fuori dalla porta.

Si ottiene fiducia rispettando la riservatezza del cliente: fin dal primo colloquio è necessario mettere in chiaro che quello che viene comunicato in confidenza rimane sempre inviolato e protetto. Quando c’è fiducia il cliente si sente libero di affrontare il dolore e la paura perché sa di non essere solo, è in grado di correre i rischi che comporta il trovarsi di fronte a se stesso perché sente il professionista al suo fianco. Nondimeno anche per l’operatore è sicuramente gratificante capire di aver ottenuto la fiducia e il rispetto del suo cliente.

Gestire al meglio un colloquio psicologico è un’attività molto impegnativa e richiede la padronanza di alcune abilità indispensabili nel porsi in relazione con un cliente.

La capacità di esprimere empatia è sicuramente una di queste. Per empatia si intende la comprensione delle esperienze, dei comportamenti e dei sentimenti degli altri il che significa per l’operatore mettere da parte i propri pregiudizi per entrare completamente nel mondo del paziente e comprenderlo a fondo: in pratica, significa mettersi nei panni dell’altro e per farlo sono necessarie sensibilità ed intuizioni. Tuttavia, per empatia non si intende solo la capacità di entrare nel mondo di un’altra persona e comprenderlo, ma anche la capacità di comunicare tale comprensione al paziente stesso; questo implica l’uso costante di riflessione e riformulazione. Non bisogna mai avere fretta. Ricostruire i travagliati eventi della propria vita e raccontarli, in fin dei conti, a uno sconosciuto non è una cosa facile e richiede il suo tempo. Lo stesso vale per il dolore, la solitudine, la frustrazione, l’incertezza, l’ambivalenza e tutti gli altri sentimenti interni che emergono durante il colloquio. Il cliente ha bisogno di tempo per riflettere su quello che gli abbiamo restituito riguardo a ciò che ha detto, e molto spesso, quello che ci dirà dopo sarà una delle cose più importanti che abbia mai avuto occasione di dire. Gestire i silenzi all’interno del colloquio è un’altra abilità molto importante; una pausa di silenzio ci può riferire, circa il vissuto del cliente, molto più che un lungo discorso: può esserci un silenzio ostile, un silenzio rassegnato, un silenzio di riflessione, un silenzio di assenso.

Le abilità e le strategie del colloquio psicologico vanno ulteriormente affinate nel caso di clienti involontari o, in generale, con tutte quelle persone che presentano una elevata resistenza e si dimostrano particolarmente restii al cambiamento. I “pazienti difficili” adottano diverse tecniche difensive per proteggersi dalla minaccia rappresentata dalla nuova ed imprevedibile situazione in cui si trovano. Ad esempio, chi ricorre all’evasione tende a parlare dei più svariati argomenti, ma in modo che il colloquio resti sul piano della semplice conversazione e che i contenuti che veramente interessano ai fini del colloquio vengano più o meno completamente esclusi. Il cliente seduttivo o adulatore cerca di distrarre l’operatore dal suo compito, tende a farne un alleato del proprio punto di vista, lo spinge ad accettarlo come un soggetto da giudicarsi favorevolmente: possiamo raccogliere i messaggi adulatori del cliente con un ringraziamento per poi riprendere il dialogo come se nulla fosse accaduto. Vi è poi una terza misura di sicurezza contraddistinta dall’aperta ribellione: il cliente ostile concepisce il colloquio come una battaglia nel quale l’operatore deve essere sconfitto e può ricorrere ad un silenzio ostinato o alla derisione e all’insulto.

Le categorie facilitative si prefiggono lo scopo di rendere il paziente più autonomo e responsabile, stimolandone le risorse personali ed incrementandone il senso di autoefficacia.

Esse comprendono interventi catartici, catalitici e di supporto. Un intervento catartico mira a rendere il cliente capace di liberarsi di tutti i sentimenti dolorosi, siano essi dolore, paura o collera, che bloccano il suo potere personale impedendone il cambiamento. La catarsi era ritenuta una delle principali funzioni della tragedia greca: si pensava che gli spettatori mentre osservavano le forti emozioni rappresentate sul palcoscenico, attraverso un processo di empatia, liberassero e purificassero i propri stati emotivi raggiungendo così una condizione di serenità. Per favorire un evento catartico occorre creare un’atmosfera di calore umano e disponibilità, che faciliti il rapporto di fiducia e consenta l’esplorazione dell’intimità del paziente: ciò può essere frequentemente ottenuto mediante ascolto riflessivo, empatia ed opportuni momenti di silenzio.

Gli interventi catalitici mirano a portare il paziente alla scoperta di sé e delle sue potenzialità, nonché all’apprendimento di nuove strategie per risolvere i problemi.

Infine gli interventi di supporto mirano ad affermare e sottolineare il valore e il merito del paziente, le sue qualità e i suoi sforzi. Questo può essere considerato l’intervento più importante e sovrapponibile a tutti gli altri. Il supporto è di fondamentale importanza in tutti i campi delle relazioni d’aiuto, per tutti pazienti, indipendentemente dalla loro necessità, dalla situazione o dal contesto.

Alla luce di quanto esposto finora, appare chiaro come il portare avanti una relazione d’aiuto sia un’attività molto impegnativa e non priva di rischi, in qualsiasi campo essa si collochi. Il colloquio psicologico, essendone il fulcro ed il vettore principale, richiede la conoscenza e la padronanza di tecniche particolari, abilità e strategie che, a seconda dei casi, posso essere abbastanza semplici ma anche molto complesse. Per sviluppare queste capacità, tuttavia, non basta avere alle spalle una solida formazione professionale, peraltro necessaria, ma sono anche indispensabili doti umane che difficilmente si potranno imparare: devono essere radicate nel terapeuta, parte integrante della sua personalità. La pazienza, innanzitutto, la sensibilità, la capacità di dimostrare empatia e solidarietà. E rispetto. Rispetto per tutti coloro che chiederanno il nostro aiuto, per il semplice sforzo di averlo fatto, di aver deciso di intraprendere un cammino nuovo e sconosciuto, per tutti gli sforzi in cui si impegneranno in futuro per migliorare la propria vita. Rispetto per l’unicità delle loro esperienze e dei loro pensieri, giusti o sbagliati che siano. Rispetto per i loro sentimenti, i loro problemi, le loro sofferenze. Rispetto per tutte le difese che adopereranno contro di noi, le barriere che ci ergeranno di fronte, le trappole che semineranno sul nostro cammino: è solo grazie a queste difficoltà che saremo in grado di arricchire il bagaglio delle nostre esperienze, fortificare la nostra volontà e portare avanti nel modo migliore la nostra crescita personale e professionale.