IL DISTURBO DI PANICO: COSÌ TEMUTO E ANCORA COSÌ SCONOSCIUTO

Quante volte nella nostra vita abbiamo utilizzato l’espressione “Sono andato in panico”, riferendoci ad una situazione nella quale abbiamo sperimentato ansia o paure intense, o abbiamo avuto la sensazione di perdere il controllo non riuscendo ad agire nella maniera più efficace? Magari durante un’interrogazione a scuola o un esame all’Università, oppure nel rivolgerci ad una persona per cui proviamo interesse, oppure ancora entrando in un luogo particolarmente caotico e affollato. In realtà, anche se la maggior parte di queste comuni reazioni ansiose non sono equiparabili a veri attacchi di panico, l’espressione, divenuta ormai di uso comune, trae origine e fa riferimento ad un problema di natura clinica ben precisa.

Il Disturbo di Panico (DAP) è infatti un disturbo d’ansia ed è caratterizzato da attacchi di panico frequenti ed inaspettati. Il DAP è una patologia piuttosto diffusa, ingravescente e fortemente invalidante. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ne soffre tra il 2% e il 3% della popolazione mondiale, soprattutto donne. Solitamente il decorso del disturbo, se non trattato efficacemente, è cronico, ma mentre alcune persone ne soffrono in modo continuativo, altre presentano intervalli di anni senza attacchi di panico. In pratica, l’attacco di panico consiste in un brusco aumento dell’intensità della paura/ansia, la quale raggiunge un picco molto alto in un breve lasso di tempo (mediamente una decina di minuti), durante il quale si possono manifestare alcuni (almeno 4) dei seguenti sintomi, sia mentali che fisici. Quindi si ha un attacco di panico quando l’ansia o la paura che proviamo sono così intense da provocare i seguenti sintomi:

  • Palpitazioni, percezione accentuata del proprio battito cardiaco o tachicardia;
  • Sudorazione accentuata;
  • Tremori o agitazione;
  • Sensazione di mancanza d’aria o di soffocamento;
  • Dolore o fastidio al petto;
  • Nausea o disturbi addominali;
  • Sensazione di sbandamento, di instabilità, sensazione di “testa leggera” o di svenimento (es. debolezza alle gambe, vertigini, visione annebbiata), confusione mentale;
  • Brividi o vampate di calore;
  • Sensazioni di intorpidimento o di formicolio (parestesie), in particolare agli arti e al volto;
  • Sensazione di irrealtà (derealizzazione, es. sensazione che ciò che vediamo, o che comunque percepiamo, non sia reale) o sensazione di essere staccati da se stessi (depersonalizzazione);
  • Paura di perdere il controllo o di impazzire;
  • Paura di morire.

È bene a questo punto soffermarci un po’ più approfonditamente sul concetto di paura, strettamente interconnesso a quelli di ansia e panico. La paura è un emozione primaria che si attiva quando l’individuo percepisce una minaccia. La paura prepara il corpo a reagire a questa minaccia. Il panico può essere innescato da qualsiasi paura per una minaccia esterna, ma immediatamente dopo la minaccia diviene interna. Il soggetto non riconosce come tali i segni dell’attivazione adrenergica della paura ma li interpreta come una grave minaccia interna alla propria salute fisica o mentale (teme di morire o di impazzire) ed entra in quel loop di autorinforzo chiamato circolo di Clark noto anche come la paura della paura. Secondo il Modello del Circolo vizioso del Panico (Clark, 1986 – Modificato da Wells, 1997) vi è uno Stimolo scatenante esterno oppure interno che viene percepito come minaccioso attivando così le sensazioni somatiche del panico come ad esempio dolori al petto, palpitazioni, salivazione azzerata, nausea, tremore tachicardia, tremore, fame d’aria, iperventilazione ecc. Dopodiché vi è un’interpretazione catastrofica delle sensazioni mentali e somatiche che accompagnano questa preoccupazione ad esempio ‘non respiro… e se mi sento male? Mi sta venendo un infarto?‘. Tutto ciò porta ad un incremento della preoccupazione, cioè si acuiranno le sensazioni somatiche, fino a causare un vero e proprio Attacco di Panico. Invece, se si mettono in atto evitamenti o comportamenti protettivi le manifestazioni negative diminuiranno con la conseguenza di una cronicizzazione dell’ansia.

Il circolo del panico è favorito dal fatto che il cambiamento fisiologico iniziale è spesso improvviso e inspiegabile. Il panico può spaventare a tal punto da diventare oggetto di preoccupazione anticipatoria. Cioè la persona può iniziare a temere di avere nuovi attacchi. Il rischio è reagire evitando tutte le situazioni che possono attivare gli attacchi di panico oppure affrontare le situazioni solo se accompagnati da qualcuno. In questo modo si innesca un problema di agorafobia. Etimologicamente, il termine proviene dal greco “αγορά” (piazza) e “φοβία” (paura): “paura della piazza”, ovvero degli spazi aperti e/o affollati. In questo caso viene intesa come la paura relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali può essere difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nei quali può non essere disponibile aiuto in caso di un improvviso attacco di panico. Una delle conseguenze pericolose dell’agorafobia è quello di ridurre l’autonomia e rinunciare ad attività quotidiane piacevoli o utili per la soddisfazione personale. In genere, la persona tende a evitare tutte le situazioni o luoghi che considera “ansiogeni”, tutte una serie di situazioni che vengono considerate dalla persona come “a rischio di attacco di panico” o in cui la persona valuta che sia difficile trovare una “via di fuga” o di ricevere aiuto in caso di un attacco di panico.

Tali evitamenti, se estesi a diversi ambiti e situazioni della vita quotidiana, risultano molto invalidanti e costrittivi per la persona che li vive, tanto da compromettere la qualità della vita: spesso la paura che si sviluppa rispetto all’attacco di panico costringe molte persone a non guidare, per esempio, per paura che un attacco di panico si verifichi alla guida e quindi di perdere il controllo in tale situazione, la persona arriva a questo punto a compromettere la propria autonomia; o, ancora, molte persone che vivono in centri urbani molto grandi che arrivano ad evitare di utilizzare i mezzi pubblici,  come per esempio la metropolitana, per cui avranno problemi a spostarsi e raggiungere luoghi “importanti” come il posto di lavoro, la scuola o, ancora peggio, viene compromessa la vita sociale (si tende a rinunciare ad incontrare amici o in genere ad allontanarsi da casa, spesso la persona prova vergogna per le conseguenze che l’attacco di panico potrebbe avere o teme che le altre persone potrebbero accorgersene). Tra i comportamenti di evitamento più diffusi si riscontrano:

  • non utilizzare automobile, autobus, metropolitana, treno o aereo;
  • non frequentare luoghi chiusi (es. cinema);
  • non frequentare luoghi affollati (es. ristoranti, centri commerciali, ecc)
  • non allontanarsi da zone considerate sicure (es. casa);
  • non compiere sforzi fisici.

Da tutto questo si evince che il DAP spesso risulta particolarmente invalidante in quanto ha ripercussioni sulla qualità di vita in generale o in alcune aree importanti della nostra vita, come in quella lavorativa (es. rinunciare ad un lavoro per le difficoltà di spostamento), familiare (es. tensioni interpersonali causate dalle frequenti richieste di essere accompagnati o per non riuscire ad adempiere ad alcuni compiti quotidiani) e sociale (es. riduzione delle relazioni a causa della difficoltà a frequentare luoghi pubblici). La compromissione della qualità di vita coincide nel breve termine con la riduzione della propria autonomia, e più a lungo termine, con la compromissione della qualità di vita anche dei propri familiari (per esempio per le numerose richieste della persona affetta dal disturbo), il senso di efficacia personale e la stima di sé.
il calo di autostima, inoltre, a lungo andare può suscitare sentimenti di tristezza e frustrazione o anche una vera e propria depressione secondaria. A tale condizione a volte molte persone tendono poi a rispondere in modo poco efficace sia per il disturbo stesso che per la propria salute, per esempio alcuni per gestire sintomi, sentimenti angoscianti tendono ad abusare di farmaci ansiolitici o sostanze stupefacenti (in particolare l’alcool).

L’età in cui tale disturbo si manifesta per la prima volta varia notevolmente da soggetto a soggetto, ma tipicamente si colloca tra la tarda adolescenza e i 35 anni. Tuttavia nella vita quotidiana può capitare di provare ansia intensa, ma non per questo possiamo definire un’unica manifestazione come disturbo di panico.
Secondo gli studi finora realizzati non è possibile risalire ad un’unica causa del disturbo, ma sono stati individuati una serie di fattori di rischio che concorrono all’insorgenza del disturbo di panico, che risultano essere:

  • situazioni stressanti fisiche (es. malattie, mancanza di sonno, uso di sostanze stupefacenti) e psicologiche (es. stress lavorativo, problemi finanziari, cambi di ruolo, conflitti interpersonali, malattie di familiari, lutti, esperienze traumatiche);
  • iperventilazione, che consiste in una respirazione più rapida e profonda rispetto al fabbisogno d’ossigeno dell’organismo in un determinato momento (in genere, la persona che ha la sensazione di soffocare tende a respirare con ritmo veloce, ingoiando più aria possibile, nell’idea altrimenti di soffocare);
  • predisposizione genetica e familiarità, per cui i consanguinei di primo grado si trasmetterebbero la tendenza a rispondere con l’ansia a determinati stimoli;
  • predisposizione biologica e psicologica, alcuni studi dimostrano che in alcune persone si manifesta un’attitudine psicologica ad interpretare come pericolosi per la propria integrità fisica e/o mentale alcuni segnali che provengono dal nostro corpo (come per es. l’accelerazione del battito cardiaco, vertigini, nausea, ecc.);
  • caratteristiche di personalità, consistenti essenzialmente in una sensibilità agli stimoli ansiogeni, che si manifesta in particolare con uno stile di pensiero catastrofico.

Gli attacchi di panico possono anche essere una conseguenza fisiologica di determinate condizioni mediche (es. ipertiroidismo, disfunzioni vestibolari, disturbi convulsivi e condizioni cardiache) o dell’uso di alcune sostanze che quotidianamente consumiamo o sostanze stupefacenti (es. caffeina, bevande che contengono sostanze “attivanti”; cannabis, cocaina, abuso di alcool).

In realtà, capita di provare ansia e paura in quanto queste sono emozioni “legittime”, “normali”, nel senso che nella quotidianità si vivono situazioni che giustificano l’emozione di ansia o paura che si prova: es., uno studente prima dell’esame prova ansia; prima di un colloquio di lavoro si prova ansia; attendere i risultati di un esame clinico suscita ansia; ecc. in tal senso l’ansia ha una funzione importante, come tutte le altre emozioni che si provano, che è quella di segnalare che un nostro scopo risulta minacciato o compromesso. Per esempio, se stiamo attraversando una strada e vediamo un veicolo che ci viene incontro ad alta velocità senza rallentare man mano che si avvicina, valutiamo che sarebbe pericoloso per la nostra stessa vita, proviamo paura e corriamo per salvarci;

Da un punto di vista neurofisiologico, i segnali provenienti dagli organi di senso, principalmente vista, udito e olfatto, raggiungono dapprima il talamo, rispettivamente visivo, uditivo e olfattivo. Da qui, se l’informazione viene percepita come sconosciuta o minacciosa, è trasmessa all’amigdala che, in quanto centralina d’allarme del nostro sistema nervoso, etichetta lo stimolo, riconoscendolo come pericoloso, sconosciuto o doloroso: in particolare se lo riconosce come pericoloso, attiva il sistema nervoso simpatico, che fa parte del sistema nervoso autonomo (cioè indipendente dai nostri ragionamenti e dalla nostra volontà). Il sistema nervoso autonomo è composto da due vie , simpatico e parasimpatico, che decorrono ai lati della colonna vertebrale (una serie di innervazioni che dal midollo spinale giungono agli organi periferici). Il sistema nervoso simpatico (sns) è finalizzato a preparare l’organismo ad attaccare o a fuggire da una situazione di pericolo o minacciosa. La reazione di paura innescata dall’amigdala rappresenta, dunque, un meccanismo fisiologico sofisticato, ma immediato, che rende le persone concentrate, energiche, attive e vigili quando si trovano o pensano di trovarsi di fronte a un pericolo o a una minaccia. I sintomi fisici si manifestano di conseguenza alle modificazioni fisiologiche prodotte dall’adrenalina che entra in circolo nel sangue, in quanto ansia e paura segnalano un pericolo e quindi ci preparano fisicamente ad una reazione tipo “attacco-fuga” (es. della macchina che ci viene contro).  Questo vuol dire che esiste un’ansia “normale”, quindi sana, che si prova in circostanze in cui generalmente risulta legittimo provare ansia, in quanto è in gioco uno scopo importante per la persona e si prova ansia perché la persona valuta che tale scopo potrebbe essere compromesso (negli esempi precedenti, lo studente ha lo scopo di superare l’esame; il giovane del colloquio di superarlo e di ottenere il lavoro; il paziente che attende i risultati spera nel buon esito degli stessi), e un’ansia “patologica”, che si differenzia dalla prima per il fatto che risulta eccessiva rispetto ad un reale pericolo (per es. pensare di morire o di avere un infarto se si prova ansia, provare ansia per il fatto di trovarsi su un mezzo di trasporto, nel senso che in tali casi le situazioni non sono “realmente pericolose” da giustificare la reazione di intensa ansia). L’ansia patologica quindi è eccessiva rispetto ad un reale pericolo.

Nel nostro cervello però abbiamo un’altra parte molto importante che rappresenta l’area più razionale e abile di tutte: la corteccia. La corteccia, nello specifico quella prefrontale, che nello sviluppo evolutivo si è formata in un secondo momento, è coinvolta nella pianificazione esecutiva e ha lo scopo di rivalutare la minaccia, prestare attenzione, aiutare a controllare gli impulsi, risolvere i problemi, riflettere sulle conseguenze delle nostre decisioni. Un’elaborazione più lenta, attraverso i vari livelli della corteccia, produce una classificazione più dettagliata ed esatta dello stimolo che viene inviato all’amigdala permettendo il compimento dell’attacco o della fuga oppure, se il sistema veloce e sommario ha prodotto un falso allarme, la cancellazione della risposta di attacco o fuga. Quindi, la corteccia coinvolta nella memoria, nel ragionamento e nel giudizio può correggere le strutture cerebrali emozionali più antiche e automatiche, riducendo la possibilità di falsi allarmi. In parole povere, così come si è creato in maniera rapida e automatica il condizionamento della paura e del panico, con un po’ di pazienza è sicuramente possibile “smontare” il condizionamento stesso, eliminando le reazioni di allarme ingiustificate e ritornando ad un funzionamento normale. Perché avvenga ciò è però necessario intervenire rapidamente all’insorgenza del disturbo, evitando che il problema si cronicizzi e risulti quindi più difficile da trattare.

I trattamenti per la cura del disturbo di panico attualmente ritenuti dalla comunità scientifica come più efficaci sono la psicoterapia e la terapia farmacologica se risulta necessaria. Come attestato da diversi studi empirici, attualmente la psicoterapia più efficace per il Disturbo di Panico è quella cognitivo-comportamentale, applicata individualmente o in gruppo.

Il trattamento cognitivo-comportamentale prevede un protocollo che implica visite con frequenza di una volta a settimana per circa 45-60 minuti per ognuna,  è efficace sia in terapia individuale che di gruppo, caratterizzato da diverse procedure, le principali si riassumo nelle seguenti fasi di trattamento:

  • formulazione di un contratto terapeutico, che contenga, in particolare obiettivi terapeutici condivisi da paziente e terapeuta e i loro rispettivi compiti (es. compiti a casa per il paziente);
  • psicoeducazione al disturbo, che consiste nel fornire al paziente informazioni su come funziona il disturbo, in particolare sulle modalità di insorgenza e come si manifesta, quindi il mantenimento dello stesso, tecniche di gestione dell’ansia;
  • ricostruire l’evento e la manifestazione iniziale e attuale del disturbo;
  • insegnamento di tecniche per la gestione dei sintomi dell’ansia;
  • individuazione delle interpretazioni erronee (es. pensieri catastrofici) che portano all’attacco di panico e messa in discussione di tali interpretazioni;
  • esposizione graduale alle sensazioni e agli stimoli temuti ed evitati (le esposizioni prevedono inizialmente la presenza di un terapeuta se necessario, per poi far esporre gradualmente la persona anche da sola);
  • prevenzione delle ricadute.


Letture consigliate:

Giampaolo Perna, Ansia: come uscire dalla gabbia e riprendersi la vita, edizioni Piemme

Marcello Mazzoleni, Nubi in transito, edizioni La Memoria del Mondo

Albert Ellis, Che Ansia!, edizioni Erickson

Filmografia consigliata:

Copycat (1995)



Parlando di Ansia e Panico, sono lieto di poter condividere con voi le parole del Prof Giampaolo Perna, Psichiatra, docente universitario, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze Cliniche della Casa di Cura Villa San Benedetto Menni di Como e del Centro Europeo per i Disturbi d’Ansia ed Emotivi di Milano, oltre che uno dei maggiori esperti internazionali nel campo dei Disturbi d’Ansia, con il quale ho avuto il privilegio di collaborare per diversi anni e che da sempre mette in guardia i pazienti dagli errori e dai rischi a cui si va incontro affrontando il Disturbo di Panico in maniera scorretta, sia dal punto di vista farmacologico che psicoterapico. Riporto qui di seguito un suo scritto su tali tematiche, nel quale è espresso in maniera molto chiara il suo pensiero…

Errori da evitare nel trattamento del Disturbo di Panico

di Giampaolo Perna

“ La vita è fatta di cose reali e di cose supposte: se le reali le mettiamo da una parte, le supposte dove le mettiamo?

( Totò)

Il Disturbo di Panico è tanto terribile da imprigionare le persone nella gabbia dell’ansia e della paura quanto in realtà uno dei disturbi mentali da cui è possibile uscire al 100%. Convivere con il panico o adattarsi ad esso ha sempre il sapore di una sconfitta. Perché moltissime persone non ritrovano la loro libertà e il loro benessere? Perché si migliora eppur si rimane limitati nella libertà e condizionati dalla paura degli attacchi? Sono due domande tanto semplici quanto veramente cruciali per ritrovare il diritto al benessere e alla libertà che appartiene a tutti, anche a chi soffre di DAP.

Mentre è facile parlare attivamente della terapia del disturbo di panico, in quanto le linee guida internazionali e le evidenze scientifiche identificano nella terapia farmacologica con inibitori della ricaptazione della serotonina e nella psicoterapia cognitivo-comportamentale breve le strategie principi nel trattamento di questo disturbo, è un po’ meno chiaro perché nonostante molti pazienti abbiano seguito questi percorsi, il disturbo di panico non si sia risolto o addirittura si sia cronicizzato. Talvolta la non risoluzione del disturbo nasce dalla presenza di altri disturbi, quali disturbi di personalità e da abuso di sostanze, che complicano il quadro rendendo necessario un intervento più complesso non sempre risolutivo, altre volte, molto raramente, nonostante la diagnosi sia chiara e la terapia correttamente applicata, il quadro non si risolve in maniera clinicamente e scientificamente spiegabile. Il più delle volte invece, la cronicizzazione del disturbo e il non ripristino di una qualità di vita ottimale deriva da una serie di errori che vengo effettuati, nonostante vengano applicate terapie apparentemente idonee.

Errore n° 1: Affidarsi a cure senza sufficienti evidenze di efficacia terapeutica

Il primo errore da non commettere è quello di affidarsi a terapie farmacologiche, psicoterapie o altri interventi che non abbiano sufficienti garanzie scientifiche di efficacia. L’unico strumento che garantisce l’efficacia di un trattamento è la ripetuta dimostrazione scientifica pubblicata su riviste internazionali quotate nel Journal of Citation Report, che attualmente è l’unico indice, forse non perfetto ma affidabile, del valore scientifico delle riviste.

Dunque leggere su internet che il dott. Pinco dice che una cura funziona, leggere un libro scritto da dott. Pallo oppure leggere in un blog che Francesco è stato salvato da una cura non ci dice niente sull’efficacia della cura. Perché queste fonti non sono attendibili? Il motivo risiede nel fatto che nessuno controlla la validità scientifica di quello che viene scritto e chiunque può decidere di aprire un sito web “Centro Mondiale per la Cura del Panico” e scrivere un libro “Vincere il panico con i pokemon”, chiunque!!. Essere laureati in medicina o psicologia è una garanzia di qualità e rende esperti nella cura del panico? Ovviamente non è sufficiente, la laurea garantisce una preparazione di base sulla medicina e sulla psicologia ma niente di più. Riflettiamo, è sufficiente essere laureato in medicina per essere un esperto in cardiologia?.

Non sto dicendo che se una cura non ha dimostrazioni di efficacia allora non funziona, segnalo soltanto che per essere sicuri che l’effetto di una cura non sia dovuta alla suggestione, o meglio all’effetto placebo, bisogna che abbia chiare dimostrazioni scientifiche, altrimenti è e rimane una semplice opinione che potrebbe essere vera o falsa. Il discorso è molto simile all’acquisto del vino: se acquistiamo un vino DOC abbiamo una garanzia di qualità altrimenti potrebbe essere buono o meno ma non abbiamo alcuna garanzia. La dimostrazione scientifica che una cura funziona è una garanzia di qualità e quando parliamo di salute mentale le garanzie devono esserci. Si potrebbe obbiettare che queste sono sottigliezze perché se una cura funziona il paziente sta meglio, se non funziona non avrà alcun beneficio. Purtroppo non è così proprio per l’effetto suggestione/placebo. Il potere della mente e del credere che una cura funzionerà può migliorare i sintomi di un disturbo in un caso su tre e in rari casi addirittura portare alla remissione completa dei sintomi. Nella stragrande maggioranza dei casi l’effetto placebo non dura e non permette di ritornare a star bene al 100%.. Dunque se su un blog Giovanni dichiara (e speriamo dica il vero…) di essere stato bene con la cura delle erbe cipolline, non possiamo sapere quanti altri hanno provato l’erba cipollina senza alcun effetto. In conclusione, il primo errore da evitare è quella di farvi incantare dalle parole di chi non ha una reale esperienza scientifica e offre cure che sono il frutto della propria opinione e non di chiare evidenze scientifiche di efficacia. Nel caso del disturbo di panico, soltanto alcune terapie farmacologiche ben precise (non tutte e non i cocktails) e la psicoterapia cognitivo comportamentale “classica” breve hanno ripetute evidenze scientifiche documentate, il resto sono semplici opinioni.  

Errore n° 2: Sbagliare la strategia farmacologica

Un secondo errore è quello di pensare che un farmaco valga un altro o che un mix di farmaci sia la cosa migliore. Dobbiamo precisare che soltanto alcuni farmaci si sono dimostrati essere efficaci nel trattamento del disturbo di panico e che l’efficacia di cocktail di farmaci non ha mai ricevuto evidenze di efficacia. Tra i farmaci che hanno evidenze di efficacia sufficientemente solide segnaliamo gli inibitori della ricaptazione della serotonina (in particolare, paroxetina, escitalopram, sertralina) alcuni triciclici (clomipramina e imipramina), alcune benzodiazepine ad alta potenza (alprazolam e clonazepam). E’ fondamentale che i trattamenti farmacologici vengano assunti a dosi congrue (se vi prescrivono 1 cp di antibiotico per una bronchite e voi ne assumente ¼ pensate che vi passerà?) per tempi congrui (se vi dicono di assumere un antibiotico per 10 giorni e voi lo assumente per 2 giorni credete funzionerà?). In generale per ottenere un effetto di completo benessere e restituito ad integrum è importante assumere dosaggi terapeutici e aver pazienza almeno 3-4 settimane. Per consolidare il trattamento è importante andare avanti per almeno 1 anno di trattamento da quando è stato raggiunto lo stato di benessere completo (assenza di attacchi di panico, sia quelli forti che gli inizi di attacco e ritorno alla completa libertà di movimento e autonomia) per poi ridurre gradualmente sotto controllo medico. Le benzodiazepine sarebbero da evitare, anche se nei primissimi giorni della terapia con i farmaci sertoninergici, per contrastare l’iniziale peggioramento delle sintomatologia ansiosa, potrebbe essere utile affiancarle per poi sospenderle gradualmente dopo un paio di settimane circa. Eccetto l’utilizzo congiunto degli inibitori della ricaptazione della serotonina e benzodiazepine, nella prima fase della cura, l’uso di altre combinazioni di farmaci non ha alcun fondamento scientifico. I cocktail andrebbero quindi evitati. Analogamente, in persone che soffrano di un disturbo di panico senza altre patologie psichiatriche concomitanti, l’uso di antipsicotici, tipici e atipici, triclicici differenti dall’imipramina e dalla clomipramina, stabilizzanti dell’umore, antiepilettici non hanno alcun fondamento scientifico. Soltanto quando l’applicazione corretta (dosi e tempi congrui) delle terapia di cui sopra non dà risultati di rilievo, allora il clinico potrà utilizzare la sua “arte” clinica nel somministrare o aggiungere molecole psicoattive senza evidenze scientifiche chiare a supporto della loro efficacia nel trattamento del panico.

I farmaci di prima scelta sono quelli di cui esistono solide evidenze scientifiche di efficacia quali: Inibitori della ricaptazione della serotonina, clomipramina e imipramina, alprazolam, clonazepam e altre benzodiazepine (anche se l’uso delle benzodiazepine andrebbe limitato per il loro elevato potenziale di abuso e dipendenza).

Scopo principe della terapia farmacologica è il blocco della ricorrenza degli attacchi di panico, blocco completo, non soltanto degli attacchi di panico forti. La persistenza di sporadici attacchi paucisintomatici, anche di lieve intensità, favorisce la cronicizzazione della fobie e dell’ansia anticipatoria.

L’uso di cocktail farmacologici andrebbe evitato in quanto privo di alcuna evidenza scientifica di efficacia.

La terapia farmacologica correttamente impostata può indurre un peggioramento dello stato psicofisico durante le prime 2 settimane di cura.

La terapia farmacologica inizia a manifestare l’effetto antipanico dopo 2-4 settimane dal raggiungimento del dosaggio terapeutico (non dall’inizio della cura farmacologica)

La terapia farmacologica va mantenuta per almeno 1 anno dalla scomparsa completa degli attacchi di panico e dal recupero della completa libertà di movimento.

Errore n° 3: Sbagliare psicoterapia

Un terzo errore, forse quello più comune, è l’affidarsi a psicoterapie di cui non esista alcuna evidenza scientifica di efficacia nella cura del disturbo di panico. Per parlare semplice e chiaro sono psicoterapie o cocktail di interventi psicologici che non hanno mai dimostrato di essere più efficaci dell’acqua fresca e che dunque potrebbero basarsi semplicemente sull’effetto placebo, cioè sull’effetto suggestione. L’effetto suggestione è sicuramente un elemento importante nel trattamento di qualsiasi disturbo fisico o mentale: essere convinti di seguire una cura valida può avere un effetto positivo sui sintomi di un disturbo (questo avviene in circa un terzo dei casi), ma questo effetto è temporaneo. L’effetto suggestione è un effetto aspecifico della fiducia, molto importante, ma aspecifico e dunque non può essere la prova di un efficacia della psicoterapia che si sta praticando (ovviamente vale anche per le cure farmacologiche). In poche parole, una psicoterapia che non abbia delle chiare prove di efficacia, potrebbe dare esiti positivi che sono il risultato dell’autosuggestione e non di una reale capacità di quella terapia di agire direttamente sul disturbo. Questo effetto nella maggioranza dei casi è parziale (non porta a un completo stato di benessere) e temporaneo (dopo un po’ i sintomi ricompaiono).

Purtroppo vengono offerte a chi soffre del disturbo di panico una miriade di psicoterapie e interventi psicologici che non hanno alcun fondamento scientifico e neppure chiare dimostrazioni di efficacia e questo non soltanto non aiuta chi soffre di disturbo di panico ma crea un danno, in quanto cronicizza il disturbo facendo spesso perdere anni di vita e di libertà a chi soffre. Nell’attualità soltanto la psicoterapia cognitivo comportamentale breve (6 mesi, 1 anno massimo) ha solide evidenze scientifiche di essere efficace nel trattamento del disturbo di panico, tutte le altre psicoterapie proposte non hanno alcuna evidenza scientifica di essere realmente efficaci. Questo non vuol dire che non possano funzionare, almeno temporaneamente, sia perché esiste l’effetto placebo-suggestione del credere nella cura, sia perché la mancanza di prove non vuol dire che non siano efficaci, semplicemente non abbiamo alcuna prova che lo siano. Il fatto che molti trattamenti vengano proposti da anni senza che nessuno abbia avuto il desiderio di dimostrarne l’efficacia (soprattutto chi le propone…) lascia molto perplessi: se come terapeuta avessi per le mani una cura realmente efficace avrei tutto l’interesse a dimostrarlo, non fosse altro per aver più clienti o per diffondere la mia proposta. Proporre una cura senza averne mai dimostrato l’efficacia lascia moltissimi dubbi sulla onestà intellettuale di chi la propone. Scrivere un libro su una psicoterapia o un intervento psicologico non ha alcun valore, dimostrare vuol dire pubblicare uno studio scientifico su una rivista internazionale riconosciuta e soltanto quando vi siano più studi fatti da studiosi diversi che confermino l’efficacia di una cura, soltanto allora potremmo dire che funziona più dell’acqua fresca. A tutt’oggi, ne val la pena di ripeterlo, soltanto la psicoterapia cognitivo comportamentale “classica” ha solide prove di efficacia nella cura del Disturbo di Panico, l’effetto di tutte le altre proposte potrebbe basarsi semplicemente sull’effetto suggestione e dunque insufficienti per ottenere un effetto stabile e completo.

Come riconoscere una psicoterapia cognitivo comportamentale “vera”:

almeno 6 sedute di terapia

durata delle sedute di 40 minuti o più

durante il corso della terapia erano stati previsti esercizi di esposizione guidati ed autodiretti

erano stati assegnati compiti a casa

la maggior parte dell'attenzione era dedicata ad affrontare i problemi connessi al disturbo per cui il soggetto aveva chiesto aiuto

non veniva dedicata la maggior parte del tempo a parlare dell'infanzia

Il terapeuta non rimaneva in silenzio per la maggior parte del tempo.

* Criteri minimi della terapia cognitivo comportamentale come suggeriti da Piacentini e colleghi (2010)

Per info e contatti

www.giampaoloperna.it