Il termine Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI), o Attention Deficit/Hyperactivity Disorder (ADHD) è stato coniato per descrivere una categoria diagnostica relativamente recente, che risale al 1989. Si tratta di un disturbo evolutivo che implica disfunzioni inerenti l’area cognitiva (disattenzione), comportamentale (impulsività) e motoria (iperattività) le quali, a loro volta, si ripercuotono sulla sfera emotiva e relazionale del bambino. Un tempo, questi bambini venivano classificati come svogliati, disattenti, disadattati, discontinui, ma i loro problemi venivano associati a loro caratteristiche morali e di personalità, o all’educazione ricevuta. Oggi, invece, si è cominciato a capire che non è il bambino a volersi comportare in maniera insoddisfacente poiché tale disturbo implica, appunto, particolari difficoltà di attenzione e concentrazione, nonché di controllo degli impulsi e del livello di attività. Questi problemi derivano sostanzialmente dall’incapacità del bambino di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente. È bene precisare che l’ADHD non è semplicemente una manifestazione, più o meno accentuata, di scarsa attenzione e concentrazione e di eccessiva attività. Non è una normale fase di crescita che ogni bambino deve superare, non è nemmeno il risultato di una disciplina educativa inefficace, e tanto meno a maggior ragione non è un problema dovuto alla “cattiveria” del bambino o a suoi intrinseci difetti di personalità. In realtà questi bambini non possono fare a meno di comportarsi così. Infatti, pur essendo intelligenti, non riescono a prestare la dovuta attenzione, spesso sono irrequieti, lavorano in modo disorganizzato e disordinato ed hanno notevoli difficoltà in compiti che richiedono un elevato e costante livello di concentrazione.

I bambini con ADHD a tratti sono molto lucidi e presenti, mentre a tratti sembra che la loro mente sia altrove o che essi non ascoltino o non abbiano sentito quanto si è appena detto loro. Disperdono, maneggiano incautamente o danneggiano il materiale. Passano frequentemente da un’attività all’altra senza terminarne nessuna. Hanno un livello di attivazione fisiologica molto alto e sono facilmente distratti da stimoli irrilevanti; in modo particolare essi percepiscono gli stimoli come un “bombardamento” e interrompono frequentemente i compiti che stanno svolgendo per prestare attenzione a rumori senza importanza o ad eventi che di solito sono ignorati da altri.

I bambini con ADHD manifestano inoltre comportamenti non finalizzati a uno scopo preciso (battono le dita o vari oggetti ritmicamente, cambiano continuamente posizione sulla sedia). Hanno la tendenza a essere sempre in movimento, in azione; a volte possono apparire maldestri nei movimenti urtando le cose o addirittura cadendo a terra. Inoltre, spesso giocherellano nervosamente con gli oggetti e agitano troppo mani e piedi, battendoli o picchiettandoli continuamente per terra o tra di loro; parlano di continuo e fanno rumore in situazioni che necessitano calma e, infine, non riescono ad aspettare le gratificazioni per ciò che hanno fatto nel modo corretto, pretendendo subito ciò che gli era stato promesso. Preferiscono dunque avere una piccola ma immediata gratificazione piuttosto che impegnarsi in termini di tempo e sforzo per ricevere in seguito un premio più consistente.

Tutti i bambini possono presentare i comportamenti descritti, ma il bambino con ADHD è quello in cui tali comportamenti sono eccessivi e di intensità tale da influire negativamente sul profilo scolastico e sulle relazioni sociali con i coetanei e con gli adulti, predisponendolo a diverse forme di disagio sociale.

Ma vediamo un po’ più nel dettaglio le varie componenti sintomatologiche che caratterizzano il disturbo:

DEFICIT DI ATTENZIONE

È caratterizzato da un tempo di attenzione molto breve, spesso di pochi minuti, e da una notevole distraibilità. Il bambino quindi non riesce a mantenere l’attenzione su alcuni compiti, anche se gradevoli, per più di pochi minuti e basta uno stimolo molto leggero per distrarlo.

In queste condizioni, non solo viene disturbato il suo comportamento di studio (spesso infatti il suo lavoro è disordinato, incompleto, svolto con poca cura, tanto che a scuola si manifestano evidenti difficoltà nel prestare attenzione ai dettagli con banali “errori di distrazione”), ma anche nello svago non riesce a seguire il gioco, le regole, i rapporti con gli altri. Spesso sembra che la testa di questi bambini sia altrove, sembra che non ascoltino o che non capiscano quanto si dice loro. Diversi autori sostengono che il deficit principale della sindrome sia rappresentato dalle difficoltà di attenzione che si manifestano sia in situazioni scolastiche/lavorative, sia in quelle sociali, di gioco, come sopra abbiamo visto.

Dato che il costrutto dell’attenzione è multidimensionale (selettiva, mantenuta, focalizzata, divisa), le ultime ricerche sembrano concordi nello stabilire che il maggiore problema evidente nell’ADHD sia il mantenimento dell’attenzione soprattutto durante attività ripetitive o noiose.

In molte altre situazioni che richiedono attenzione il bambino con ADHD non presenta però particolari problemi, per cui recentemente l’accento è stato posto sulla difficoltà di autoregolazione e cioè sull’incapacità di regolare autonomamente il proprio comportamento compresa l’attenzione. Il bambino con ADHD avrebbe una buona capacità di comportamento eteroregolato (cioè di regolare il proprio comportamento quando viene guidato da altri, soprattutto nella relazione a due adulto-bambino) e difficoltà invece di comportamento autoregolato. Sembra quindi che le problematiche attentive diventino evidenti in particolare quando il compito da svolgere non risulta attraente e motivante per il bambino.

IPERATTIVITÀ

Definita come la tipica incapacità del bambino di comportarsi in modo appropriato per la sua età, in situazioni dove vi siano richieste di contenimento del livello di attività di concentrazione dell’attenzione, di resistenza alla distrazione e di inibizione delle risposte impulsive. Tale incapacità comporta un eccessivo livello di attività motoria o vocale: I bambini iperattivi manifestano una continua agitazione, muovono continuamente le mani o i piedi, sono irrequieti quando si trovano seduti su una sedia, oppure non riescono a stare seduti quando le circostanze sociali lo richiedono. Corrono e si arrampicano ovunque e hanno difficoltà a dedicarsi tranquillamente ad un gioco o ad un’attività anche durante il tempo libero. Questi bambini spesso parlano eccessivamente e sono sempre in movimento, come se fossero “guidati da un motorino”, sia a scuola che a casa, durante i compiti ma anche durante il gioco. Molto spesso i movimenti di tutte le parti del corpo (gambe, braccia, mani e tronco) non sono armonicamente diretti al raggiungimento di uno scopo.

L’iperattività è considerata facente parte di una “dimensione comportamentale” lungo la quale i bambini, ma anche gli adulti, si collocano lungo un continuum: dal polo calmo-ben organizzato al polo irrequieto-disattento; qui tutte le persone trovano una loro collocazione compresi i bambini iperattivi che naturalmente occupano una posizione estrema.

È importante sottolineare a questo proposito che le manifestazioni dell’iperattività si modificano con l’età: prima dei sei anni l’iperattività è molto evidente e questi bambini sono descritti come delle “piccole pesti”; corrono avanti e indietro per la casa e non stanno mai fermi. Dai sei anni in poi diminuisce la frequenza e l’intensità di questi comportamenti, sebbene per loro sia sempre difficoltoso restare, ad esempio, seduti a tavola per tutta la durata del pasto o guardare tranquillamente la televisione. Nell’età adolescenziale e adulta le manifestazioni dell’iperattività diminuiscono progressivamente di intensità ma non scompaiono del tutto e persiste un senso di irrequietezza, un’incapacità a stare fermo o impegnarsi in una stessa attività per un periodo prolungato.

IMPULSIVITÀ

Secondo gli studi fatti da Barkley (1997), l’impulsività è la caratteristica distintiva dell’ADHD rispetto ai bambini senza gravi problemi e rispetto agli altri disordini psicologici. Barkley ritiene infatti che il problema centrale di cui fanno esperienza i soggetti con ADHD sia un serio e pervasivo problema di impulsività. L’impulsività è una caratteristica che rimane abbastanza stabile durante lo sviluppo (sebbene conosca diverse forme a seconda dell’età) e si manifesta con un’eccessiva impazienza, difficoltà a controllare le proprie reazioni, difficoltà a dilazionare una risposta, ad inibire un comportamento inappropriato, ad attendere una gratificazione. I bambini impulsivi rispondono troppo velocemente (a scapito dell’accuratezza delle loro risposte), interrompono frequentemente gli altri intromettendosi quando stanno parlando o facendo commenti indesiderati, rispondono precipitosamente alle domande spesso prima che queste vengano completate, non riescono a stare in fila e ad attendere il proprio turno nel gioco o in altre attività di gruppo. Oltre ad una persistente impazienza, l’impulsività si manifesta anche nell’intraprendere azioni pericolose senza considerare le possibili conseguenze negative sia a livello sociale che scolastico/lavorativo.

A questi tre sintomi cardine, che sono i più noti ed importanti, vi possiamo aggiungere un altro sintomo non meno importante:

DISTRAIBILITÀ

Gli individui con ADHD si lasciano distrarre facilmente da stimoli irrilevanti. Qualsiasi cambiamento nell’ambiente - un suono o un movimento - attira la loro attenzione. Per questo sono incapaci di studiare in un ambiente in cui siano presenti potenziali distrazioni e non sono in grado di filtrare i suoni e i movimenti di sottofondo. Dimenticano in continuazione oggetti, cose, appuntamenti. Hanno problemi ad adeguarsi, possono essere passivi-aggressivi ed è raro che seguano le istruzioni completamente alla lettera. Tendono a porsi obbiettivi ben al di sotto delle loro reali possibilità per la maggior parte delle loro situazioni di vita, senza commisurarsi alle loro abilità, alla loro intelligenza e alla loro educazione.

Per quanto riguarda l’evoluzione del disturbo è necessario anticipare che esso si manifesta secondo tempi e modalità differenti a seconda di una serie di variabili che mediano le manifestazioni sintomatologiche:

  • Nel periodo dopo la nascita abbiamo un bambino “diverso” per quanto riguarda la modulazione del livello di eccitazione, il controllo inibitorio e la regolazione dell’attenzione. Sono bambini molto irritabili, inclini ad un pianto inconsolabile, facilmente frustrabili, con difficoltà di sonno e alimentazione.
  • In età prescolare il bambino potrà diventare molto eccitabile ed impulsivo; è infatti frequente rilevare iperattività motoria (correre, arrampicarsi, saltare) cambiamenti dell’umore e difficoltà di sonno (inizio e mantenimento del sonno notturno).
  • Nell’ età scolare si evidenziano disattenzione e problemi comportamentali a cui spesso si associano disturbi dell’apprendimento (lettura-scrittura) e altre problematiche psicologiche (ad es. atteggiamenti oppositivi, bassa autostima, depressione). Gli insegnanti descrivono questi bambini come immaturi rispetto ai loro coetanei, soprattutto dal punto di vista comportamentale.
  • Nella preadolescenza e nell’adolescenza l’iperattività tende a diminuire in termini di frequenza e intensità e può venire parzialmente sostituita da “un’agitazione interiorizzata” che si manifesta soprattutto con insofferenza, impazienza e continui cambi di attività o movimenti del corpo.

Con lo sviluppo, inoltre, si possono generare dei tratti comportamentali che ostacolano ulteriormente il buon inserimento del bambino nel suo ambiente sociale: l’ostinazione, la scarsa obbedienza alle regole, la prepotenza, la maggior labilità dell’umore, la scarsa tolleranza alla frustrazione, gli scatti d’ira e la ridotta autostima. Durante la preadolescenza il comportamento incontrollato e la disattenzione non consentono una facile acquisizione delle abilità sociali, indispensabili per un buona capacità di interagire con gli altri: i ragazzi con ADHD dimostrano infatti scarsa capacità di mantenere amicizie e risolvere i conflitti interpersonali.

Prima di riflettere sulle cause del problema è opportuno chiarire la differenza tra i fattori che determinano l’insorgenza e quelli che ne determinano il mantenimento. Le cause sono responsabili della presenza o meno di un determinato problema psicologico, ma le modalità con cui questo si esprime dipende dai fattori di mantenimento. Le principali cause dell’ADHD sono riconducibili a fattori di natura ereditaria e neurobiologica, mentre i fattori di mantenimento dipendono dalla struttura dell’ambiente (scuola, famiglia).

Sono state formulate molte ipotesi per cercare di spiegare le cause di questo disturbo tra cui:

Ipotesi di danneggiamento di funzioni cerebrali

Durante tutto il XX secolo numerosi ricercatori hanno riscontrato interessanti somiglianze tra il comportamento dei bambini con ADHD/ADD e quello di pazienti con lesioni o ipofunzionalità del lobo frontale della corteccia celebrale (da qui il termine minimal brain damage usato prima degli anni ’60 come sinonimo di ADHD): disinibizione, problemi di mantenimento dell’attenzione, difficoltà di pianificazione e nell’utilizzo di strategie cognitive.

Si ritiene che, nelle disfunzioni dell’ADHD, siano coinvolti principalmente tre aree cerebrali:

  • Corteccia prefrontale
  • Parte del cervelletto
  • Almeno due gangli della base

Tutte queste aree sono quelle più coinvolte nei processi di regolazione dell’attenzione.

Attraverso studi elettroencefalografici (EEG), si è osservato che il livello di attivazione (“arousal”) del Sistema Nervoso Centrale è significativamente più basso nei soggetti con ADHD rispetto ai soggetti normali; questa ipoattivazione si manifesterebbe attraverso una scarsa energia e lentezza nei movimenti. Questa scoperta spiegherebbe l’origine, da parte dei bambini con ADHD di una continua ricerca di stimolazione che si concretizzerebbe nell’iperattività motoria.

Tramite la PET (Tomografia ad Emissione di Positroni) è stato confermato, invece, che l’attività delle regioni frontali cerebrali con ADHD è inferiore rispetto a quella del gruppo di controllo; si spiega quindi il motivo per cui i bambini con disattenzione e iperattività presentano anche difficoltà di controllo emotivo, scarsa motivazione e inadeguato uso (che non significa mancanza) delle proprie capacità di memoria.

Si è ipotizzato che il deficit cognitivo comune, sottostante al comportamento caratteristico dei soggetti con ADHD, sia un ridotto funzionamento dei processi di inibizione della risposta. Il processo di controllo è una delle componenti fondamentali delle funzioni esecutive del sistema cognitivo: funzioni necessarie per scegliere, costruire, mantenere ed eseguire strategie ottimali nella risoluzione di un compito, così come per inibire strategie che sono diventate inappropriate quando si modificano le mete di un compito e si verificano degli errori.

Ipotesi correlate all’ambiente

Alcuni autori sostengono che una delle cause dell’iperattività sia l’aumento dei ritmi di vita, come ad esempio l’incremento della velocità e della frenesia con cui le famiglie gestiscono i propri impegni che induce una sorta di sovrastimolazione in bambini che sono più a rischio rispetto ad altri di sviluppare una condotta iperattiva. Accanto a ciò, le componenti aggressive a volte associate all’ADHD sono correlate al (o forse causate dal) basso status socio-economico della famiglia e dalla presenza di comportamenti ansiosi e/o aggressività da parte dei genitori nell’educazione del bambino.

ADHD e condizioni psichiatriche

Un’altra condizione psicologica che si può associare all’ADHD è l’ansia. A volte può succedere che alcuni bambini presentino manifestazioni d’ansia (eccessiva preoccupazione rispetto agli eventi circostanti) per una serie di motivi che sono da ricercare nella situazione di disagio familiare, oppure in loro stessi. Può succedere che uno specialista possa confondere un ADHD con dei sintomi d’ansia perché i bambini ansiosi manifestano una serie di comportamenti molto simili a quelli dell’ADHD. È quindi molto importante differenziare i due disturbi: i bambini con disturbi d’ansia possono infatti manifestare problemi di concentrazione, impulsività e irrequietezza, proprio come quelli con ADHD, però i primi, al contrario dei secondi, “sono indebitamente preoccupati riguardo il loro futuro” (APA, 1987). Anche nell’eziologia e nella distribuzione fra i due sessi, i due disturbi sono differenziabili. In età adolescenziale alcuni casi con ADHD possono sviluppare dei tratti ansiosi a seguito di una serie di fallimenti in ambito sociale e scolastico che hanno accumulato durante la crescita, e che li rendono insicuri rispetto alle loro capacità e incerti sui risultati dei loro comportamenti.

I bambini e gli adolescenti con ADHD che soffrono di ansia cronica possono anche presentare depressione. Di fatto, il 25% di adolescenti con ADHD risponde ai criteri diagnostici di depressione. Il ritiro sociale, la fatica e l’indifferenza agli affetti sono sintomi riconoscibili in caso di depressione sospetta, ma sintomi più difficilmente distinguibili da quelli associati all’ADHD includono irrequietezza, aggressione, labilità emotiva, irritabilità e iperattività. Anche la depressione quindi può presentarsi in concomitanza a disturbi attentivi o iperattività. I bambini manifestano la loro tristezza con irritabilità, distrazione e irrequietezza: manifestazioni tipiche dell’ADHD. Come nel caso del disturbo d’ansia, alcuni ragazzi con ADHD possono sviluppare i sintomi del Disturbo d’Umore in quanto possono vivere un senso di fallimento e di frustrazione a causa dei numerosi insuccessi scolastici e sociali. Questa modalità di pensiero nasce soprattutto dalla loro idea che i fallimenti siano dovuti ad un deficit di abilità.

ADHD e Disturbi dell’apprendimento

Un più ampio gruppo di bambini con ADHD, circa il 50%, presenta anche una serie di problematiche di ordine scolastico. È quindi frequente l’associazione dell’ADHD con i disturbi di apprendimento: la prevalenza di comorbidità riscontrata è infatti molto alta ed è stimata tra il 50% e l’80% dei bambini con ADHD. I comportamenti tipici e comuni dei due disturbi sono: frustrazione, disattenzione, iperattività, disorganizzazione, incapacità di stare concentrati sul compito per completare le consegne, problemi di memoria a breve termine, scarso rendimento scolastico, performance scolastica inadeguata, disgrafia, scoordinazione e deficit nelle abilità sociali, scarsa autostima, labilità emotiva.

Prognosi: l’ADHD nell’età adulta

L’ADHD non è solo un disturbo dell’infanzia. Fino all’inizio degli anni Settanta c’era, tra i clinici, la condivisa opinione che l’ADHD fosse solamente un ritardo nello sviluppo psicologico del bambino, i cui sintomi sarebbero scomparsi all’inizio dell’adolescenza; ma gli studi più recenti confutano questa idea e suggeriscono una percentuale dal 30 al 70% che potrebbe continuare a presentare sintomi significativi del disturbo in età adulta. Non esiste un ADHD con esordio nell’età adulta. Infatti mentre tra il 30% ed il 40% di soggetti con ADHD non presentano più i sintomi in età adulta, il 40%-50% di soggetti continua a presentare tale disturbo anche da adulto. E in quest’ultimo gruppo, una percentuale tra il 10% ed il 15% manifesta ancora un quadro sintomatico che può essere definito grave.

Dato che l’ADHD negli adulti è la continuazione dell’ADHD dell’infanzia, i sintomi sono simili. Ad ogni modo, la ricerca indica che nel corso dello sviluppo, alcuni sintomi cambiano sia in intensità che in frequenza. Altri rimangono gli stessi ma si esprimono in modo diverso: l’iperattività, ad esempio, si manifesta come senso interiore di irrequietezza piuttosto che come grossolana iperattività motoria, l’inattenzione comporta difficoltà ad organizzare le proprie attività o a coordinare le proprie azioni con conseguenti difficoltà scolastiche, occupazionali e sociali, frequenti incidenti stradali, etc. L’impulsività cambia qualitativamente: anch’essa può diminuire con l’età, ma essendo un tratto di personalità stabile come l’aggressività, cambia poco con la crescita.

Le richieste dell’ambiente verso gli adulti sono ovviamente diverse da quelle nei confronti dei bambini; infatti quando la persona cresce ha maggiori possibilità di scegliere le attività in cui vuole o non vuole impegnarsi. Per questo motivo anche i problemi che si incontrano sono diversi. Gli adulti che soffrono di ADHD hanno problemi nel prendersi e nel rispettare la maggior parte delle responsabilità che richiedono loro un buon livello di organizzazione come: lavorare, prendersi cura della famiglia, gestire gli obblighi finanziari, guidare con attenzione, rispettare gli appuntamenti e adempiere alle numerose richieste sociali della vita quotidiana. Nella maggior parte dei casi è proprio l’insoddisfazione per come la loro vita procede una delle caratteristiche salienti dei problemi degli adulti con ADHD, insoddisfazione che li porta a:

  • cambiare spesso lavoro senza sentirsi mai realmente gratificati
  • faticare per mantenere relazioni stabili
  • avere difficoltà nella gestione dei soldi; fanno spese impulsive
  • sperimentare spesso sbalzi d’umore, “alti e bassi” che si verificano senza motivo
  • manifestare problemi nelle relazioni matrimoniali e di coppia (creano un ambiente caotico e ostile, influenzano le relazioni sessuali con ipersessualità o problemi nell’intimità)
  • nel tempo libero ricavare piacere da attività ad alto rischio come gli sport estremi o il gioco d’azzardo
  • avere maggiore propensione per comportamenti antisociali

Il comportamento antisociale causato dall’ADHD è piuttosto diverso dal Disturbo di Personalità Antisociale: gli individui con ADHD conoscono le regole, ma non riescono a porre limiti adeguati al loro comportamento in modo da poterle rispettare, mentre gli individui con Disturbo di Personalità Antisociale conoscono le regole, ma scelgono semplicemente di non seguirle. Il comportamento antisociale dell’ADHD è suscettibile di trattamento e miglioramento.

Altro disturbo associato all’ADHD nell’adulto è quello dell’abuso di sostanze. Le sostanze preferite sono l’alcol, gli oppiacei, la cocaina e la caffeina; queste sostanze inibiscono la sofferenza, la disforia, la noia del fallimento ripetuto e del “mi sento male perché non so cosa c’è che non va in me”. L’ADHD e l’abuso di sostanze in comorbidità hanno importanti implicazioni di trattamento e di esiti.

Altri fattori che possono determinare una prognosi negativa dell’ADHD sono: situazioni familiari difficili, depressione della madre, comportamenti antisociali in famiglia e insorgenza precoce del disturbo.

Vale la pena di ripetere che tutti i sintomi dell’ADHD possono essere osservati anche in una popolazione di persone che non hanno tale disturbo. Sono la gravità, l’intensità e il grado di interferenza nella vita quotidiana di un individuo che spostano le disattenzioni, le smemoratezze e l’iperattività associate allo stile di vita di oggi fino alla diagnosi di “Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività”.

LE TERAPIE: diverse aree d’intervento

Negli ultimi anni la ricerca sembra orientata verso un approccio di tipo multidimensionale. Si è cominciato a considerare le diverse sfaccettature di cui è composto il problema e si è compreso che, se non si agisce su tutti i fronti possibili, i risultati dell’intervento, qualsiasi esso sia, risultano inefficaci o, comunque, limitati e relativi. L’approccio multimodale si basa comunque sulla rivalutazione e l’integrazione dei diversi tipi di interventi sopra menzionati, considerando la validità di ognuno e utilizzandone le parti più efficaci. Questo tipo di intervento nasce dalla consapevolezza che l’ADHD è un disturbo multifattoriale; la stessa eziologia è varia e non ancora ben definita. Si ritiene dunque indispensabile agire contemporaneamente a diversi livelli. Le tipologie di trattamento proposte sono molteplici:

    • il lavoro con il bambino mirato cioè a ridurre i comportamenti negativi e incrementare quelli positivi pianificando opportune strategie di contenimento e insegnando alcune tecniche cognitive per favorire lo sviluppo di un pensiero più riflessivo;
  • la formazione dei genitori per fornire informazioni sul disturbo e per individuare insieme ad essi misure educative adeguate alle problematiche del bambino (Vio, Marzocchi e Offredi, 1999);
  • l’intervento in ambito scolastico basato sulla gestione dei comportamenti (corretto utilizzo di premi, uso attento di punizioni e applicazioni di sistemi a punti) (Di Pietro, et al., 2001; Cornoldi et al., 2000)
  • intervento farmacologico.

In linea di principio, ogni intervento che tenti di modificare il comportamento dei bambini con ADHD fa leva sui principi del condizionamento operante, secondo i quali è possibile ridurre gli atteggiamenti negativi e aumentare quelli positivi pianificando e producendo delle opportune conseguenze ai comportamenti del bambino. Dato che i soggetti con ADHD manifestano sia deficit che eccessi comportamentali le psicoterapie behavioriste tentano di ridurre i comportamenti negativi e contemporaneamente di aumentare quelli positivi. Le conseguenze positive (come i premi) aumentano la frequenza, l’intensità e/o la durata di un dato comportamento, mentre quelle negative (come le sanzioni) fanno diminuire la frequenza, l’intensità e/o la durata di un comportamento. Le conseguenze positive, quando vengono applicate correttamente, possono essere molto efficaci per la modificazione del comportamento dei bambini con ADHD. L’esperienza modo da evitare l’abitudine, i bambini con ADHD possono avere gli stessi risultati degli altri coetanei, in molti campi.

Le tecniche di intervento utilizzate nella terapia comportamentale sono diverse, alcune servono ad incrementare comportamenti adeguati che già sono presenti nel soggetto (rinforzo), altre sono applicate per aumentare i comportamenti adeguati assenti nel soggetto; altre ancora servono per ridurre la frequenza di comportamenti inadeguati; e infine vi sono altre strategie più complesse come ad esempio la Token Economy. Il «rinforzo» è un concetto chiave quando si parla di strategie di intervento, utilizzate nella terapia comportamentale, in quanto serve ad incrementare i comportamenti adeguati già presenti nel repertorio dell’individuo come ad esempio: l’orientamento al compito, l’esecuzione delle attività assegnate, l’uso di efficaci strategie cognitive e il controllo degli impulsi. Viene chiamato rinforzo qualsiasi evento che abbia la capacità di incrementare la frequenza con cui compare un determinato comportamento, incrementandola. Quando la conseguenza di una risposta ha come effetto di rinforzare la risposta stessa, rendendola cioè più probabile e frequente in futuro, questa conseguenza prende il nome di rinforzatore. Un oggetto o un evento viene definito rinforzatore solo per i suoi effetti sul comportamento.

Esistono diversi tipi di rinforzatori e una distinzione può essere fatta tra i rinforzatori primari e secondari:

Rinforzatori primari: sono quei rinforzatori legati a un bisogno primario, cioè essenziale alla nostra sopravvivenza: sono rinforzatori primari il cibo e l’acqua, ad esempio, ma non vengono mai utilizzati in un progetto educativo.

Rinforzatori secondari: tutti quei rinforzatori che non sono legati a un bisogno primario, innato e dal quale dipende la nostra sopravvivenza, ma a bisogni secondari, a cose cioè che ciascuno di noi impara ad apprezzare nel corso della vita. Possono essere rinforzatori secondari una scatola di colori, un pacchetto di figurine, una bambola, un’automobilina, una gita. Naturalmente i rinforzatori secondari sono diversi per ogni persona, proprio perché ognuno ha una diversa storia. Tra questi, una categoria molto importante è quella dei rinforzatori sociali: tutte quelle situazioni che hanno il loro potere rinforzante nell’interazione con altri esseri umani: la vicinanza e il contatto fisico, un cenno di approvazione, un sorriso, una valutazione verbale positiva come una lode o un complimento che esprimono quindi il soddisfacimento per il comportamento emesso. Questi sono molto importanti nel trattamento dei deficit d’attenzione; spesso, infatti, questi bambini sono completamente (o quasi) privati di questi tipi di rinforzi, poiché sono entrati in un circolo di esperienze fallimentari.

La letteratura ci mostra come gli interventi basati sulle tecniche di analisi e modificazione del comportamento, sistematicamente condotti da esperti in setting controllati, possono promuovere nuove capacità cognitive, sociali, linguistiche sia in soggetti con disordini comportamentali sia in soggetti con disabilità cognitive. È anche accertato che le abilità acquisite in un contesto “artificiale” altamente strutturato, quale è il setting clinico, nella maggior parte dei casi rimangono limitate a quel determinato contesto se non vengono previste e programmate durante la fase di training stesso, procedure specifiche di generalizzazione. Un comportamento si può quindi ritenere generalizzato se permane nel tempo, se implica un vasto numero di condotte ad esso correlate e se, soprattutto, si manifesta in una più ampia varietà di contesti. Una delle strategie più efficaci per mantenere i comportamenti appresi all’interno del setting anche nel contesto naturale è sicuramente quella di coinvolgere nel trattamento l’ambiente famigliare e, più in specifico, i genitori del bambino. Per far ciò è necessario che questi ultimi siano in possesso di specifiche abilità e conoscenze riguardo alle tecniche educative più idonee da attuare con i propri figli. A questo scopo sono nati i programmi di Parent Training, finalizzati cioè all’incremento delle abilità genitoriali nel gestire i problemi che possono insorgere quotidianamente nell’educazione, anche a prescindere dall’eventuale presenza di figli particolarmente “difficili”. Allo stesso modo è sicuramente di grande utilità, laddove sia possibile, il coinvolgimento degli insegnanti e dell’ambiente scolastico più in generale.

In un capitolo inerente ai vari approcci terapeutici indirizzati ai bambini con ADHD è necessario quantomeno accennare alla terapia farmacologica. Secondo numerosi studi alcuni farmaci psicostimolanti ottengono risultati clinicamente significativi nel 70 – 80% dei casi. Questi studi non possono essere ignorati. In primo luogo per i sopra citati effetti che producono sugli aspetti e i comportamenti problematici tipici dell’ADHD. In secondo luogo per le polemiche che hanno stimolato in ambito psicologico, sia per i problemi di dipendenza e i possibili effetti collaterali che il farmaco può indurre, sia a causa del rischio di diagnosticare con eccessiva superficialità un disturbo per poi curare magicamente con una medicina anche normali comportamenti del bambino, magari un po’ fastidiosi per l’adulto.

Negli ultimi vent’anni l’argomento è stato particolarmente dibattuto in Italia, anche sulla stampa e sui mezzi di comunicazione di massa, spesso con i toni accesi della polemica, perché il principale farmaco utilizzato in questi casi , il metilfenidato (nome commerciale: Ritalin), è stato ammesso nel nostro paese solo nella primavera del 2001. Come descritto precedentemente, è stata avanzata l’ipotesi che il cervello delle persone affette da ADHD sia “strutturato” in modo diverso rispetto a quello degli altri, in quanto le aree che provvedono alla vigilanza e alla veglia richiedono livelli più alti di stimolazione per conservare la veglia stessa e mantenere l’attenzione e la concentrazione. L’uso del farmaco ristruttura efficacemente queste aree del cervello. Gli effetti del metilfenidato e degli psicostimolanti sul comportamento dei bambini iperattivi sono rapidi ed intensi. Questi farmaci permettono al bambino di controllare l’iperattività e l’inattenzione. Durante le assunzioni del farmaco risultano migliorate le risposte ai test di attenzione, di vigilanza, di apprendimento visivo e verbale e di memoria a breve termine. I bambini che assumono queste sostanze non sono solamente meno impulsivi, irrequieti o distraibili, ma anche maggiormente capaci di tenere a mente istruzioni e informazioni importanti, di avere migliori risultati a scuola, di interiorizzare meglio il discorso autodiretto e di avere un maggiore autocontrollo. Dopo brevi periodi di terapia risulta quindi migliorata la qualità dell’interazione con i genitori, gli insegnanti e i coetanei e diminuiscono in intensità e frequenza i comportamenti distruttivi, oppositivi e aggressivi. Va però tenuto presente che una volta sospesa la terapia i suoi effetti benefici svaniscono; anche questo aspetto è spesso fonte di numerose critiche, poichè si vede il bambino essenzialmente dipendente dal farmaco. Infatti, in molti casi i follow-up condotti dopo cinque o più anni di terapia con stimolanti mostrano come, nel lungo termine, questo tipo di cura non sia in grado di modificare la prognosi dei bambini affetti da ADHD. Per tali motivi risulta di particolare importanza affiancare alla farmacoterapia, sia nel bambino che nell’adulto, una psicoterapia che sia capace di offrire un tipo di aiuto che cerchi di ampliare e potenziare con mezzi psicologici gli effetti positivi del farmaco; che sfrutti questo effetto positivo per proporre nuovi obiettivi comportamentali; che lavori per cercare di evitare l’uso eccessivamente prolungato di una medicina e prevenire i rischi di dipendenza e di effetti collaterali. E, soprattutto nell’adulto, che cerchi di comprendere l’impatto che tanti anni di ADHD hanno avuto sulla vita di chi ne soffre, aiutandolo a riconoscere i fattori scatenanti e di mantenimento dei suoi problemi, definendo gli obiettivi da raggiungere in maniera graduale, lavorando per incrementarne l’autostima e insegnando, forse per la prima volta, strategie e tecniche realmente efficaci per il cambiamento.

Letteratura consigliata:

Russell Barkley, ADHD: strumenti e strategie per la gestione in classe, Erickson

Russell Barkley, Prendersi cura dell’ADHD: una guida per i genitori, Edizioni AIFA Onlus

Lawrence Shapiro, ADHD: il mio libro di esercizi, Erickson

AAVV, Deficit di Attenzione e Iperattività negli adulti, The Blokehead

Filmografia consigliata:

ADHD-Rush Hour (2012)